Proverò a descrivere il grande ospedale che ti accolse. I numeri sono imponenti: cinquemilaottocento tra medici e infermieri, e duemilacinquecento pazienti ricoverati. Sono arabi, sudamericani, europei, orientali, appartengono alla religione mussulmana, protestante, buddista, cattolica, indù, e possono approfittare dei relativi luoghi di preghiera. La struttura dispone di traduttori per tutte le lingue e di ministri per tutte le religioni.
All’interno, per il paziente, trattato come un vero re, c’é tutto quello che é umano desiderare: parrucchiere, caffetteria, sala computer, fax e fotocopie, bazars, centro di ascolto spirituale, sala per intrattenere i bambini corredata di cento giochi con tanto di educatrice a disposizione. Ed inoltre, la sala per riposare tra una visita e l’altra, con servizio continuo di ristoro. E atri enormi (ne ho contati quattro), con un pianoforte a coda, delle bellissime piante, un banchetto con bibite calde e fredde, per distrarre ospiti e visitatori. E ancora, la biblioteca, la cineteca, un centro per suonare od ascoltare musica in cuffia.
Tutti i servizi sono gratuiti. Un esercito di volontari, quasi tutti ex ammalati, offrono un prezioso supporto a chi, spaesato ed impaurito, sta soggiornando all’interno dell’ospedale.
Dunque eravamo veramente seguiti nel migliore dei modi, e tuttavia ci sentivamo sempre sollecitati a dominare le oscillazioni del nostro stato d’animo.
Con la mia mentalità europea, trovavo molto singolare l’approccio alla malattia. Infatti, ogni malato è visto come il protagonista della sua storia che si incentra sulla lotta combattuta giorno dopo giorno.
Mi colpiva il nome dell’ospedale M. D. Anderson completato dalla scritta Cancer Center, come se si trattasse di uno Shopping Center. Mi sembrava stupefacente che le parole Cancer Center fossero stampate in bella mostra su magliette, felpe, cappelli, borse, e corredate dallo slogan making cancer history (io sto facendo la storia del cancro). Era una strategia per esorcizzare la sofferenza, imponendo alla situazione un tocco di leggerezza, che non sempre mi sentivo di condividere.
Ma apprezzavo che i malati fossero liberi di muoversi per l’ospedale, portandosi dietro i loro alberelli per le flebo e le sacche delle chemio. Ci rallegravamo a curiosare tra ambienti vivacizzati da pupazzi, decorazioni natalizie o pasquali, oppure dalle zucche per la festa di Halloween, come dai tacchini tradizionali per il pranzo del giorno del ringraziamento.
Più in fretta di quanto avremmo potuto immaginare, avevamo imparato a ricambiare il sorriso di medici e infermieri, sempre sorridenti benché costantemente impegnati a coinvolgere al massimo il paziente con la spiegazione di ogni particolare della malattia e della sua gravità. Senza mai fargli mancare l’incoraggiamento di un intero staff medico e paramedico che sta combattendo il nemico al suo fianco.
E ancora, mi colpiva favorevolmente il museo dell’ospedale dove, oltre alle illustrazioni sulla storia dell’ M. D. Anderson, nato in una villetta nel lontano 1950, sono esposte fotografie con nomi e storie di pazienti che hanno combattuto e vinto il cancro.
Lì mi sorrideva il volto di una ragazza sportiva, che a ventitre anni aveva vinto una gara di corsa sui duecento metri, dopo aver sconfitto un linfoma non Hodgkin uguale al tuo. Tu eri il numero 375407.
E ti vivevo accanto coltivando ostinatamente la speranza. Non volevo accettare che si facesse sempre più sottile, mentre tutti i medici ci toglievano ogni prospettiva di guarigione.
Tutti meno uno,il direttore del dipartimento, il numero uno nel mondo, il nostro dott. Cabanillas.